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mercoledì 16 gennaio 2013

LA COLONSCOPIA PUO' SALVARE LA VITA: "LA MIA ESPERIENZA"

15 gennaio 2013 - Il Talmud, la raccolta di saggezze, dice che “chi salva una vita, salva il mondo”. Da sempre leggo il Grigione Italiano e in prima pagina ho visto il volto sorridente del dott. Carlo Pansoni all’ospedale S. Sisto di Poschiavo e subito mi sono detto: «Ecco chi mi ha salvato la vita!». (Di Bernardo G. Ferrari)
Ho quindi deciso che anch’io posso salvare delle vite dando pubblica testimonianza di quanto a me capitato, perché “il sapere è fatto per darlo”, come diceva don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, nel Mugello.
Da anni si sta facendo uno screening della popolazione, dai 50 ai 70 anni, per la diagnosi precoce del tumore al colon, una delle principali cause di mortalità insieme a quelli del seno, dei polmoni, della prostata ecc.. Sono sicuro che oltre il 90% dei cittadini non ha la più vaga idea di cosa sia e di cosa si deve fare, anche perché riguarda una popolazione in gran parte oltre i 50 anni.
Questa la mia esperienza, che avrei preferito non fare, ma come si suol dire, tutto è bene quel che finisce bene.
Per 64 anni non ho mai visto un ospedale, salvo i controlli di routine. Un giorno ricevo dalla ASL una lettera dove mi si invita ad effettuare uno screening, ma mi dico che mi sento un leone, non ho disturbi e non ho tempo da perdere e da far perdere ad altri. Per alcuni anni cestino le lettere, ma poi per non farmi rompere gli “zebedei” dalla mia metà del cielo, vado all’ASL con la lettera, ritiro la provetta, intingo il bastoncino e la riporto.
Dopo una settimana a mia moglie viene consegnata una lettera che riporta l’esito negativo dell’esame; io invece ricevo una telefonata dall’ospedale Morelli di Sondalo: «Venga, il dott. Pansoni le vuole parlare». Il valore normale del sangue occulto nelle feci è di 100; il mio 125 e il dott. Pansoni mi dice che è meglio dare un’occhiata. Alcune bustine di Isocolan, dal sapore di aranciata, con alcuni litri d’acqua e l’intestino è uno specchio.
Varcando la soglia del reparto di colonscopia a Sondalo mi rammento Dante: “calate le mutande o voi che entrate”, poi su un lettino, il sogno erotico degli Italiani, 3 donne (la dottoressa e 2 infermiere) sorridenti, io coi calzoni calati e che, per sdrammatizzare dico: «dovreste mettere a caratteri cubitali la scritta di un detto genovese: “la vita è una tempesta e prenderlo nel culo è un lampo”. Mi infilano un ago nel braccio, per l’anestesia, e mi addormento.
Quando mi sveglio mi viene consegnato l’esito: c’era un polipo di 2 mm che è stato tolto e mandato ad analizzare. L’esito è negativo. L’anno dopo mi viene ripetuta la colonscopia: negativa. Passano altri dodici mesi e mi sento benissimo, ma il dott. Pansoni mi mostra una fotografia, tipo polaroid, dicendomi: «va tolto, prima lo togliamo meglio è». A questo punto sopravvengono due atteggiamenti mentali, il primo: Dio mi ha dato la vita, Dio me la toglie, sia fatta la sua volontà; il secondo: sono una macchina storica che ha percorso tanti km e che funziona bene, ma si sta rompendo il tubo che porta acqua al motore e quindi, se non lo si sostituisce, si fonde il motore e il tutto va rottamato. Il buon Dio, che ci ha fatto con 2 occhi, 2 orecchie, 2 polmoni, 2 reni, 2 gambe, ha previsto anche molti metri di intestino, quindi 30 o 40 cm in meno non sarà la fine del mondo.
Quindi dopo 15 giorni, parto cesareo in chirurgia e “l’alieno” (come diceva Oriana Fallaci) è stato tolto, facendo zag-zag, ricucendo poi con 16 punti, assolutamente perfetti e invisibili. Hanno guardato le cellule: da buone stavano virando in cattive e quindi mi viene prescritta la chemioterapia (da 3 a 6 mesi) da effettuarsi all’ospedale di Sondalo con il dott. Giuseppe Valmadre. La chemioterapia è lunga, fastidiosa, fa perdere l’appetito, crea formicolio alle mani e ai piedi, ma è sopportabile per chi ha spirito e corpo forte.
Per questo consiglio di sottoporsi tranquillamente allo screening del sangue occulto. Ricordatevi cosa diceva il buon Giulio Andreotti: “meglio tirare a campare che tirare le cuoia!”.
Bernardo G. Ferrari

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